SAN GIOVANNI BATTISTA

nella cultura popolare abruzzese

Tradizioni, riti e sortilegi del 24 giugno


Tabula fati, 2018 
seconda edizione ampliata e rivista 2020


 

Giovanni D'Alessandro
PRESENTAZIONE 

alla seconda edizione, 2020


Lu san Giu’anne in Abruzzo è più santo che altrove. Non è una blasfemia, è un dato antropologico. Perché? Ma perché per una festività come quella ricorrente il 24  giugno – che non solo segue dappresso il solstizio d’estate, quando le ore di luce hanno la massima estensione mentre quelle di buio la minima, e quando ricorrono determinate fasi peculiari del ciclo agrario locale, in prossimità del raccolto – non potrebbe immaginarsi uno scenario più intonato della nostra regione. Qualcuno obietterà: forse che solstizio e ciclo agrario non ci sono anche altrove nell’emisfero boreale e, in specie, alle nostre latitudini italiane? Certo che sì. Solo che ad essi manca qualcosa. Mancano il sogno, la magia, il mistero. Mancano la “perdizione”, lo spaesamento, lo smarrimento nel reperire un’identità alternativa che recuperi, animi e metta in moto quella parte di noi che l’illusione chiamata realtà, appesantita dalle catene della quotidianità, confinata per il resto dell’anno in fondo al cuore. E nessuno ama lasciarsi cadere in fondo al cuore più di un abruzzese. Altre festività connesse a fasi solari rinvengono altrove la loro patria d’elezione. Al sud, potrebbe mai una festività come quella di Santa Rosalia, che di poco segue, a luglio, il nostro san Giu’anne, trovare, per le sue mistiche macchine teatrali in processione, uno scenario più intonato di Palermo? Lì la lunga dominazione spagnola ha lasciato tracce delle struggenti festività di Siviglia o di Toledo e del patetismo che le anima. O, all’opposto, nel nord Italia, potrebbe immaginarsi per la Segavecchia uno scenario più adatto della padania romagnola, quando con l’equinozio di primavera un sospiro si leva dalla terra e ai suoi lavoranti, i quali celebrano l’inizio dell’attesa della fruttificazione, col primo allungamento del giorno? In quelle nebbiose lande, il manichino in fiamme che rappresenta la uccisione della strega vecchia reca traccia delle celtiche feste del fuoco,
celebrando un inverno ormai morto e la vittoria sulla fatica. A ogni terra, dunque, le sue magie. E può esserci qualcosa di più bucolicamente abruzzese del rito sangiovanneo dell’acqua magica? Sul davanzale di casa erbe aromatiche e fiori profumati vengono lasciati dalle ragazze immersi in un recipiente pieno d’acqua, per lavarsi al mattino con essa, auspicando che l’acqua santa del San Giovanni spinga uno sposo a farsi avanti. E i giovanotti, a loro volta, nella stessa notte hanno lasciato lì un messaggio: petali di fiori quale confessione d’amore per la ragazza bramata; spine, se lei non ricambia; amore e odio in forma floreale. Nel rito dell’acqua magica si sente l’eco giocosa del corteggiamento che troverà musica e parole nell’E vola vola vola, inno regionale dell’Abruzzo. Si cercano uno
sposo, una sposa. Per andare a vivere insieme. Per formarsi una famiglia. Per mettere al mondo figli. Con l’aiuto del santo precursore del Cristo, in attesa del matrimonio. È dunque una festa pre-sacramentale cristiana lu san Giu’anne? Sotto un certo punto di vista, assolutamente sì. Non solo, però. C’è anche una eversione della parte etica, morale, prescrittiva dei vangeli e una riappropriazione delle figure che popolano quelli apocrifi. Si sfrena qui un’anarchica fantasia popolare, con un san Giovanni che non ha tanto a che vedere col Battista storico, quanto con l’acqua del Giordano; si tratta infatti di una festa essenzialmente acquea, concelebrata con altri elementi naturali come il sole la luna la rugiada la brina; recuperando un arcaico animismo di ciò che da sempre, da prima della venuta del cristianesimo, è nel mondo dell’uomo e accende la sua fantasia. Festa pagana, dunque? Sotto un certo punto di vista, assolutamente sì. Ma anche festa di solidarietà umana. Di aiuto reciproco, ritualizzato nella costituzione del comparatico. Ci s’imparenta tra umani senza derivare dallo stesso sangue. Ci si chiama l’uno nel nucleo familiare dell’altro con la promessa di un aiuto reciproco, all’occorrenza, tramite la costituzione di un vincolo convenzionale a ciò mirato. Ci vuole un suggello per questo e lo s’imprime il 24 giugno, con il comparatico appunto. Festa di sostegno, di amicizia, che fa di un estraneo il cum-pater. Festa dell’offerta taumaturgica, con l’approntamento e la reciproca degustazione di prodotti come il nocino di san Giovanni, o l’olio, unguento-medicina del buon samaritano, di tutt’altro popolo, di tutt’altra religione, il quale però, incrociato l’altro essere umano abbandonato sul ciglio della strada e riverso sul baratro del bisogno, si fa prossimo a lui, si china su di lui, si prende cura di lui e lo guarisce, obbedendo a una legge non verticalmente calata dal cielo, bensì mutamente vigente tra tutti gli esseri umani. Festa dell’etica non religiosa, bensì laica? Sotto un certo punto di vista, assolutamente sì. Dal che si evidenzia come non abbia molto senso collocarla in un determinato contesto religioso o astrarla da esso nello sforzo di scavare alla ricerca d’introvabili valenze ultraterrene. Festa né pagana né cristiana, dunque. Festa e basta. 

Tra le tante lodi che possono farsi per il presente libro, giunto alla seconda edizione ampliata, a questo cercatore di vene aurifere nella cultura popolare; a questo seguace di antichi misteri sedotto dal sogno; a questo rabdomante di acque, magiche o del Giordano, qual è David Ferrante, la principale lode riguarda la en-érgheia, l’energia che pervade ogni capitolo, ogni narrazione; energia che è icona fedele del libro, icona fedele dell’autore. David Ferrante non si chiede se la en-érgheia da cui si è fatto attraversare e che ha trasfuso in queste pagine venga a lui da ethos o da pathos, da agape o da eros, dal
precursore del Cristo o dagli dèi. La chiama a sé per sondarne la forza e raccontarla, senza alcuna pretesa di spiegarla.
Giovanni D’Alessandro


INTRODUZIONE 

Quando mi ritrovo assorto e affascinato a leggere o a rivivere tradizioni, usi e costumi dimenticati o ancora mantenuti del popolo abruzzese, i miei sensi tutti (vista, olfatto, udito, tatto e anche il cuore) seguono i pensieri che vanno ai miei nonni. Trovo sempre il loro ricordo nei tratti di questa cultura popolare che tanto mi attrae e che vado lentamente riscoprendo. Anche nel caso della magica notte tra il 23 e 24 giugno, tutto ha inizio dai racconti serali di mia nonna, sul quel terrazzo con lo sguardo proteso verso la campagna e su fino alla montagna, finché la penombra si abbondonava al buio che ammantava tutto. Mi diceva «Stanotte è la notte di San Giuvanne e dumane matine, se t’arisvije presto, pu’ vedè le nuvole che lavano la faccia a lu sole.» Non sapeva darmi una spiegazione di questo fenomeno e forse non lo aveva mai visto neanche lei ma: «Lo raccontavano gli antichi e la nonna me ariccujeve la felce di prima matine, ancora bagnata dalla bbrine, perché faceva bene a tante cose.»

Da questi ricordi dal profumo magico, misterioso e affettivo è partita la mia curiosità sull’argomento per poi trasferirsi sui testi di Antonio De Nino (Pratola Peligna, 1833 – Sulmona, 1907), e Gennaro Finamore (Gessopalena, 1836 – Lanciano, 1923) dai quali sono state tratte molte delle usanze abruzzesi legate al 24 giugno riportate nel testo. In seguito la mia attenzione è proseguita nella manualistica demologica, al fine di dare una cornice e possibili spiegazioni alla ritualistica; nei vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni dai quali è stata ricavata la vita di San Giovanni; in altri testi di ricercatori del folklore genericamente inteso e della cultura popolare abruzzese nello specifico, con inevitabili tuffi nel mare del web. Così nasce questo mio primo piccolo scritto dedicato all’Abruzzo e al suo popolo. 

Ho scelto di riportare credenze e usanze abruzzesi legate al Battista nonostante fossero in disuso già nell’800 e di raccontarle come se non fossero mai state abbandonate perché mi piace pensarle sempre vive e perché, negli ultimi anni, si va verso la riscoperta di molte di queste seguendo l’attuale inclinazione alla valorizzazione delle tradizioni locali quale collante delle comunità e richiamo turistico. 

È il sapore del passato di un popolo che deve essere raccontato e rivissuto con abiti moderni come in un viaggio lento nella cultura delle genti d’Abruzzo.

Chieti, 25 dicembre 2017

David Ferrante

«E domani è San Giovanni, fratel caro; è San Giovanni. Su la Plaia me ne vo’ gire, per vedere il capo mozzo dentro il sole, all’apparire, per veder nel piatto d’oro tutto il sangue ribollire.» Così fa descrivere da Ornella, Gabriele D’Annunzio, il giorno del Battista ne La figlia di Iorio (1903). Perché in Abruzzo, così come altrove, nel giorno in cui si celebra la nascita di san Giovanni si verificano fatti prodigiosi: il sole e la luna si bagnano in mare e una nuvola premurosa li asciuga; l’acqua e la rugiada acquistano proprietà miracolose così come le erbe e i fiori che diventano magici e aumentano le loro proprietà terapeutiche; si compiono riti divinatori per trovare marito e per unirsi nel potente e indissolubile legame di comparaggio. Un giorno magico ma anche infausto: le streghe girano per compiere sortilegi; il Santo si vendica su coloro che non hanno rispettato il comparatico e onorato la sua festa. Unico breve e labile momento nel quale si può tentare di sconfiggere Pandàfeche, Stréhe e tutte quelle creature che hanno avuto l’ardire di nascere nello stesso giorno del Cristo.
     Testimonia e avverte lo studioso del folclore abruzzese Gennaro Finamore (1890): «Narrasi di un contadino, che volle trebbiare nel dì di S. Giovanni e il tempo si mosse a tempesta, e il contadino, gli assistenti, il grano, i buoi, tutto fu dal fulmine subissato. Ogni anno, nella notte che precede la festa del Precursore, si ode in quel luogo un romore sotterraneo: e sono le grida di quegli sciagurati. Dove questo avvenisse, non si sa dire di preciso; ma certamente, fu in un luogo e in un tempo.»
     Si amalgamano, nella notte tra il 23 e il 24 giugno, paganesimo, folclore e religiosità giustificandosi vicendevolmente. I simboli religiosi ripropongono ritualistiche propiziatorie che da sempre tentano una soluzione alla dura lotta dell’uomo per la sopravvivenza da sempre legata ai capricci e alla benevolenza della natura.